Riporto alcuni passi di un articolo apparso oggi sul quotidiano La Repubblica, il quale focalizza l’attenzione un tema molto attuale di cui mi trova quasi del tutto d’accordo.
Vorrei condividerlo con noi per uno spunto di riflessione e per capire come la pensate.
Lo schianto è vicino, l’eccesso ha prodotto l’eccesso.
L’epocale sorpasso è imminente: tra fotocamere e fotofonini, sono già in circolazione oltre 6 miliardi di aggeggi in grado di produrre immagini, presto ce ne sarà uno per ogni essere umano del pianetà, poi di più. E lavorano a pieno ritmo. L’inciviltà delle immagini già sotto il peso di un paio di miliardi di foto prodotto ogni giorno. Non potremo mai consumare tutte le immagini che fabbrichiamo. Saremo travolti dal surplus iconografico, dalle scorie dell’iperproduzione visuale. Affogati dai nostri doppi, soffocati dai duplicati del mondo.
Gli artisti lo hanno capito come sempre prima: così non si può andare avanti. Le fotografie ora si sono smaterializzate e non traboccano più dai cassetti, ma è ancora peggio: l’ingombro fisico ci dava almeno la misura strabordante della polluzione visuale, che adesso invece si nasconde negli hard disk, nella nuvola di Internet e nei generosi server dei social network che fagocitano nuove immagini al ritmo di 10 milioni l’ora (Facebook) o sessanta al secondo (Instagram). L’olandese Erik Kessels, l’anno scorso stampò su carta, formato 10×15, l’equivalente dell’upload fotografico di una sola giornata di Facebook e riversò il prodotto sul pavimento della galleria Foam di Amsterdam: le foto formavano dune alte fino al soffitto, bisognava camminarci in mezzo, arrampicarsi su precari sentieri, pestarle, affondarci i piedi, rischiando la valanga letale.
Il consumo delle foto.flusso su Internet, è stato calcolato, dura tra da tre a cinque secondi, il tempo di un clic. Ma come le sportine di plastica della spesa, poi si disperdono nell’ambiente virtuale e ci restano per l’eternità. Sono ancora tutte lì, le due duecento inguardabili foto che hai fatto l’anno scorso al compleanno di tuo figlio con gli amichetti, le cinquecento noiosissime foto prese in spiaggia Cervia due anni fa… Buttate all’ingrosso nei depositi numerici, tutte quante, senza neppure sceglierle. Chi le guarderà mai più? Sono diventate invisibili. Ma allora, a cosa servono? Perchè dobbiamo conservarle? Ma quali dovremmo buttare?
A chi spetta il compito di scegliere, di differenziare, di avviare all’inceneritore le ecoballe virtuali coi cascami della nostra ipertrofia visuale? Ai rispettivi creatori? Non lo faranno mia.
Eppure, confusamente, sentiamo che sono troppe (come gli esseri umani del resto). Siamo consci che la sovrappopolazione visiva ci minacci. E allora, come madri snaturate ma non assassine, abbandoniamo le nostre creature come trovatelle alla ruota. Ora gli istituti per foto abbandonate sono le memorie elettroniche dei social network, alle quali affidiamo immagini che non conserviamo più nei nostri hard disk.
Miliardi di immagini già esistenti, dunque. Ogni cosa del mondo già replicata centinaia, migliaia di volte. Sappia il Wwf , come scrisse il compianto Ando Gilardini, che al mondo “esistono più fotografie di elefanti che elefanti”. Ma davvero questa foto che sta scattando proprio ora è così unica , necessaria, è così indispensabile metterla al mondo? Forse qualcuno l’ha già scattata, allora meglio usare la sua, se non gli serve più. Qualche tempo fa l’americana Penelope Umbrico voleva fotografare un tramonto romantico. Le venne un dubbio. Digitò sunset sul motore di ricerca di Flickr, la grande comunità online di neo-fotoamatori. Ebbene subito a disposizione 11 milioni 299 mila e rotti tramonti del tutto simili al suo. Rinunciò ad aggiungervi il proprio, e ci fece una mostra ossessiva.
Davvero, la tentazione di pensare che di fotografie ne abbiamo già abbastanza, che ci bastano quelle che già ci sono, è forte. Quest’anno uno dei primi italiani di fotogiornalismo più ambiti, il “Piraresi”, è andato a Giorgio di Noto, un fotografo che non fa fotografia, che non si è mosso dalla sua scrivania, ma ha solo pescato in Rete fotogrammi delle primavere arabe, li ha ritagliati e rielaborati e li ah presentati come reportage. Un lavoro interessante. E una dichiarazione di morte per il fotogiornalismo, convalidata da una competente giuria. Siamo già oltre la pratica postmoderna dell’appropriazione, è una vera e propria teoria della decrescita visuale che prende piede. In un libro appena uscito negli Usa, Pictures not Taken, una sessantina di fotografi raccontano la fotografia più bella che non hanno fatto, che hanno rinunciato a fare.
Fermi, fermi. Non staremo un pò esagerando con questo fotoecologismo radicale? Davvero niente più fotografie nuove, solo riciclate? Spaventati dall’onda montante dell’enormità seriale e monotono delle immagini-flusso, con l’artista concettuale Franco Vaccari ha definito Lumpenfotografie, equivalente visuale del sottoproletariato di Marcx, rischiamo di cadere nel malthusianismo fotografico. E riusando solo già visto rischiamo di restare, paradossalmente, poveri di immagini per eccesso di immagini. Del resto, proprio il grande smaltitore Schmid, dopo oltre vent’anni di gestione della sua geniale piattaforma di riciclaggio, sembra aver un pò paura di annoiarsi, e sulla copertina del suo ultimo Bilderbuch ha scritto, con parole ritagliate dai giornali come nelle lettere anonime: “Per favore non smettete di fotografare…”. Per riciclare una cosa, qualcuno deve pure averla prodotta.
(Michele Smargiassi – La Repubblica 9 dicembre 2012)