La primavera nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini e negli Appennini rappresenta la quintessenza dell’equilibrio secolare tra uomo e natura e ogni metro della sua terra è permeato della storia umana, così come lo sono anche i territori interni delle aree protette. Lo sappiamo, la montagna e i territori marginali, come nel caso della Fraz. Foce di Montemonaco, non hanno un peso politico, ma se nel nostro Paese il voto si basasse sulla rappresentanza territoriale e la disponibilità di risorse naturali, i popoli della montagna sarebbero invincibili in qualsiasi competizione elettorale.
Per aiutare questo processo di recupero dei territori interni e la nascita di nuove forme dell’abitare la montagna, anche l’atto di camminare può svolgere un ruolo importante, attraverso l’escursionismo giornaliero e il trekking di più giorni. Le nostre montagne custodiscono paesaggi meravigliosi, ricchi di natura, cultura storica pagana, precristiana e crisitiana. Il girovagare e perdersi in questi luoghi minimi e del silenzio hanno fatto nascere in me una sensibilità e un amore profondo per l’Appennino e per le persone che ci vivono ogni giorno.
Chiamata agli inizi del Novecento la piccola svizzera picena, per il laghetto naturale che la bagnava e i ridenti e scoscesi boschetti che la raccoglievano, Foce si trova a 945 m s.l.m. di quota, all’interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini, dove la valle del fiume Aso è stretta tra le vette più alte del gruppo montuoso. Nonostante la sua posizione apparentemente isolata e il rigido clima invernale è stata tappa fondamentale, sin dall’epoca tardo imperiale (VI-VII secolo), per coloro che attraverso il passo di Sasso Borghese nei mesi estivi provenivano dall’altopiano di Castelluccio di Norcia per scendere nella valle dell’Aso e le comunità picene. Delle due antiche chiese di Foce resta l’attuale San Bartolomeo e si è perduta, probabilmente a causa dei terremoti, quella di Santa Maria di Foce del XV secolo descritta nel disegno di Antoine de La Sale come “SantMa de Fogia”, che doveva trovarsi in posizione rialzata rispetto al livello attuale del borgo e spostata verso il Monte Sibilla.
Da qui si snodano numerosi sentieri tra cui quello per il Lago di Pilato e il laghetto di Palazzo Borghese.
Il Laghetto di Palazzo Borghese è posto a quota 1.786 mt. di altitudine sotto le pendici rocciose di Monte Palazzo Borghese, all’interno di un’ampia conca carsico-glaciale. E’ uno splendido specchio di acqua raggiungibile solo a piedi e visibile esclusivamente tra la primavera e l’inizio dell’estate dopo lo scioglimento delle nevi dei ghiacciai invernali.Nelle sue acque è ospitato il Chirocefalo della Sibilla (“Chirocephalus Sibyllae”), una specie simile al più famoso Chirocefalo del Marchesoni (Chirocephalus Marchesonii) situato nel Lago di Pilato. I pochi giorni di esistenza del Laghetto sono sufficienti affinchè il Chirocephalus Sibyllae (di color grigio e non arancione come l’altro) completi il suo ciclo vitale.
Il Lago di Pilato è situato all’interno del territorio comunale, a meno di un chilometro dal confine umbro, è l’unico lago naturale delle Marche e uno dei pochissimi laghi glaciali di tipo alpino presenti sull’Appennino. Particolare e suggestiva la sua ubicazione tra pareti impervie e verticali immediatamente sotto la cima del Monte Vettore. Le dimensioni e la portata d’acqua dipendono principalmente dalla distribuzione delle precipitazioni: è infatti alimentato, oltre che dalle piogge, soprattutto dallo scioglimento delle nevi, che ricoprono per buona parte dell’anno la superficie dello specchio d’acqua fino all’inizio dell’estate. Il Lago di Pilato ospita un particolare endemismo, il Chirocefalo del Marchesoni: è un piccolo crostaceo di colore rosso che misura 9-12 millimetri e nuota col ventre rivolto verso l’alto.
Terra di antiche frequentazioni, accoglieva stabilmente sin dal tardo Medioevo genti provenienti da terre lontane. Attratte dalla liberalità e dall’insofferenza ai poteri costituiti dei montemonachesi alcune frange ereticali come i Fraticelli Michelisti, i Clareni, i Sacconi, i seguaci dei Cavalieri templari ed altri eretici scappati da stati o città meno tolleranti, si riversarono sin dal XIV secolo nelle più sicure terre montane del territorio di Montemonaco e dei comuni limitrofi. Altri decisero di attraversare il Mare Adriatico e si stabilirono in Dalmazia o in Grecia.
Fra gli accadimenti del XV secolo, che contribuiranno ulteriormente, nei secoli successivi, a far conoscere Montemonaco ben oltre il suo naturale ambito geografico, ve ne sono di significativi almeno due: da una parte la venuta in queste terre dello scudiero francese Antoine de La Sale al servizio della Duca Luigi III d’Angiò nel maggio 1420 dall’altra la pubblicazione nel 1473 del Romanzo di Andrea da Barberino, Guerrino detto meschino. Entrambi gli avvenimenti si muovono sullo sfondo della leggenda della Sibilla Appenninica e il complesso ipogeo della sua Grotta, ricompreso sin dall’antico nel territorio montemonachese. La fama della Sibilla Appenninica doveva aver raggiunto la Borgogna se la Duchessa Agnese, sorella di Filippo Il Buono, pare avesse un arazzo nel suo castello con la rappresentazione della grotta della Sibilla. La Sale vide l’arazzo proprio nel castello di Angers, nel 1437, in occasione della festa di nozze della figlia di lei, Maria di Borbone, col figlio di Renato d’Angiò, e, constatando che la raffigurazione dei luoghi non corrispondeva al vero, decise di narrarle il viaggio, compiuto 17 anni prima, e tutto ciò che aveva visto e udito. Fra le motivazioni che avrebbero spinto La Sale ad intraprendere il viaggio Detlev Kraack individua quello dell’onore: tuttavia, non fu inviato dalla dama stessa sui monti della Sibilla. La Sale viaggiava già da tempo in Italia, al seguito dei duchi d’Angiò, Luigi II e Luigi III, prima, il re Renato poi. Gli Angiò speravano di recuperare il regno di Napoli, ma tale speranza fu infranta nel 1442, quando quella città venne strappata dagli Aragonesi.
In una pergamena del 1452, ad appena dodici anni dall’ultima visita di Antoine de La Sale, viene trascritta la sentenza di assoluzione da scomunica dei Priori e di tutta la comunità montemonachese per aver ospitato Cavalieri provenienti dalla Spagna e dal Regno di Napoli, dediti da mesi all’arte dell’alchimia in una casa del paese (casa di Ser Catarino)
I principali capi d’accusa sono quelli di aver (i montemonachesi) aiutato e accompagnato i Cavalieri fino al lago della Sibilla (Lago di Pilato) per consacrarvi i libri diabolici e, una volta messi in carcere per ordine dell’inquisizione, di averli fatti scappare! La Santa Inquisizione dichiara nel documento di essere venuta “casualmente” a conoscenza degli antefatti, da cui era scattato l’arresto dei Cavalieri, e in un secondo momento della loro fuga. L’inquisitore della Marca anconitana De Guardarjis traduce allora i Priori e tutta la comunità in tribunale a Tolentino per giudicarli.Ma stranamente, alla fine di un lungo dibattimento processuale tutti vengono assolti e liberati dalla scomunica, grazie all’atteggiamento liberale che dominava nella Marca anconitana, al contrario dell’Italia Settentrionale e del resto d’Europa dove una simile circostanza avrebbe provocato l’accensione di una notevole quantità di roghi.
Le terre sibilline, come confermano gli studi del Parco Nazionale, sono ancor oggi ricche di specie officinali. Unitamente alla disseminata presenza di fonti sorgive e acque minerali erano le due condizioni necessarie perché si potessero approntare i laboratori alchemici fra i quali, ad esempio, quello citato nella sentenza di assoluzione da scomunica. Ida Li Vigni e Paolo Aldo Rossi ritengono che fossero le anziane donne, chiamate nel Piceno “Vergare” e nei secoli passati tacciate di far uso di arti magiche e stregoneria, le depositarie delle ricette di medicina popolare, tramandate di generazione in generazione, per far fronte con decotti, infusi e pomate alle malattie semplici. Si dedicavano per questo alla raccolta delle radici, dei fiori ed erbe fiorili, anche per gli alchimisti speziali; questi ultimi preparavano la distillazione delle quintessenze vegetali e minerali, gli olii essenziali e quant’altro utile a loro e ai cerusici per far fronte alle malattie.
Dopo l’ascensione al Lago di Palazzo Borghese, in compagnia di Ruben ed Elisa, abbiamo pranzato alla Taverna della Montagna di Foce di Montemonaco. Davanti a un enorme camino si può respirare ancora un profumo di antichi sapori e tradizioni, un luogo magico accompagnati da un menù d’eccezione: polenta alla carbonara, affettati, coratella e infine il distillato di genziana autoctona.
Spunti di riflessione e alcuni testi sono ripresi dal bellissimo libro “Appennino atto d’amore” di Paolo Piacentini – Terre di Mezzo editore.